Perché è aumentato il prezzo del grano
La legge della domanda e dell’offerta ci dice che quando una merce scarseggia sul mercato, il suo prezzo sale. È successa la stessa cosa per il grano. Vi ricordate quando, durante la pandemia, farina e pasta scarseggiavano? Le industrie molitorie e i trasformatori sono andati a caccia di tutto ciò che c’era a disposizione sul mercato e, all’arrivo del nuovo raccolto, chi ha potuto, ha fatto scorte nei propri silos. In più, bisogna considerare che il grano è una commodity, un prodotto primario o materia prima che costituisce un fondamentale oggetto di scambio internazionale, al pari di petrolio, carbone e caffè. Questa corsa alla scorta è avvenuta quando il prezzo era ancora fermo a 277 euro a tonnellata per il grano nazionale e a 293 euro per quello estero. Oggi, che il grano scarseggia, quelle scorte valgono molto di più: esattamente +86% rispetto alla quotazione media del 2020 per il nazionale, e +108% per il grano di importazione extra europeo.
A questa condizione storica eccezionale, ne va aggiunta una strutturale: quella dell’aumento della popolazione e un costante relativo aumento dei consumi. Sul pianeta siamo sempre di più e abbiamo bisogno di mangiare. E, come abbiamo sottolineato, il grano serve anche per allevare animali da macello, di cui ci cibiamo.
Poi c’è il cambiamento climatico. L’ultimo mese di luglio è stato il più caldo di sempre nell’emisfero Nord. Le rese per ettaro di Canada e Stati Uniti sono scese del 50%, con effetto dirompente sui prezzi. In Russia si stimava un raccolto abbondante fino a luglio, pari a 85 Mt, ma a raccolto effettuato di grano tenero c’erano solo 72 Mt: qui, a pesare, non sono stati solo caldo e siccità, ma anche l’imposizione di dazi per l’esportazione, necessari per calmierare i prezzi interni, ma che, di fatto, hanno portato a una gara al rialzo.
In più, in Francia e Germania la pioggia ha devastato i raccolti. Come spiega Andrea Valente, presidente della sezione molini a frumenti tenero Italmopa «quando piove sul grano quasi pronto per il raccolto, se ne degrada la qualità: in Francia gran parte del raccolto è stato declassato a uso zootecnico. Ci si aspettava un anno record e si sono persi qualche milione di tonnellate». E a proposito di zootecnia, dato che in questa industria si usa molto anche il mais, bisogna tenere presente anche che la produzione di questo alimento è calata con conseguente aumento di prezzo, che ha condizionato anche il grano perché chiamato a colmare il gap. Al raccolto del 2021 si è arrivati con scorte basse di grano e prezzi alti anche per il mais, il cui raccolto è ancora in corso. Insomma, la tempesta perfetta.
Ma, come ha spiegato in un comunicato di fine settembre il presidente Italmopa, Silvio Grassi, qualche settimana prima di venire a mancare, «il violento incremento delle quotazioni internazionali, e quindi nazionali» vanno considerati insieme all’aumento dei costi logistici ed energetici. Sul caro bollette siamo stati debitamente informati da tempo. Sui costi del trasporto su gomma e nave, e sugli effetti sui prezzi delle materie prime c’è meno risonanza. Ad esempio, il costo di un container è quasi quintuplicato, con conseguenze visibili anche su un pacco di farina. Sta di fatto che gli incrementi constatati si attestano attorno al 35% e «non possono in alcun modo essere integralmente assorbiti dalle aziende molitorie la cui redditività, secondo un recente studio Ismea, è compresa tra il 2,5 ed il 3%, uno dei più bassi nell’intero comparto agroalimentare nazionale». Ma c’è un altro dato, ancora più interessante. L’Italia produce poco – e spesso male – perché non ci sono persone disposte a coltivare grano duro e tenero. Per la prima volta negli ultimi 100 anni, Italmopa ha rilevato che la sola superficie coltivata a frumento tenero in Italia consta di poco meno di 500.000 ettari. Un’inezia.
Come ne usciamo
È necessario premettere che le soluzioni possibili al problema dell’aumento del prezzo del grano non sono facilmente prevedibili. Ma oggi è possibile possiamo ragionare sui problemi strutturali, iniziando anche a intavolare dialoghi con le istituzioni partendo da un assunto: produciamo poco grano e abbiamo un fabbisogno che ci costringe a importare il 35% del prodotto che consumiamo. È ora di darci da fare e tornare a coltivare. La situazione creatasi quest’anno ci dice che avere terreni agricoli abbandonati è un lusso che non possiamo più permetterci. Inoltre, bisogna prestare maggiore attenzione alle pratiche di coltivazione del grano: esistono Paesi in cui si lavora con protocolli 4.0, che preservano la salute dell’ambiente e ci restituiscono un prodotto qualitativamente migliore. In questo, gli incentivi costituiti dai contratti di filiera, legati comunque ai prezzi delle borse merci, ma associati a premi legati alla qualità, possono fungere da prima leva.
Stimolare un aumento delle produzioni in Italia è necessario: se riuscissimo a produrre più grano potremmo evitare aumenti violenti. L’imprenditore non può contare su una redditività così bassa e sostenere da solo tutti questi aumenti, che sarà necessario riversare in parte o in buona parte sul consumatore intermedio o finale. Ma è anche necessario puntare su prodotti con più alta marginalità, scegliendo una politica di qualità e andando a occupare nicchie di mercato in cui l’aumento dei prezzi può essere assorbito più facilmente. Le nicchie con più alta redditività, che guardano farine particolari, in cui la tecnica del mulino e l’abilità molitoria del mugnaio può fare la differenza, possono garantire margini più alti.